Piccolo quotidiano

Approfondimenti su Vangelo e religione

E soltanto il dire
Silenzioso e quieto
Dedicò ogni fiato
al vivere umile nel tempo


John Baptist

Parola di Dio e “messaggi” della Madonna

Se è vero che la fede cristiana è fondata sulla Parola di Dio, ovvero sulla promessa della vita eterna fatta al popolo d’Israele e realizzata in Gesù Cristo, perché accade che generazioni di credenti siano attratti da fenomeni religiosi riguardanti visioni, apparizioni e pronunciamenti oracolari che poco hanno a che fare con la vita eterna e con Gesù Cristo ma, al limite, con la Madonna? Di certo c’è che l’uomo ha sempre bisogno di Dio e vive la propria quotidianità a volte trascinandosi con fatica di tramonto in tramonto, di dolore in dolore. Ma ci sono due tipi di persone che si distinguono all’interno della chiesa; uno è quello degli impulsivi e l’altro è quello dei rassegnati. Il primo è in continua agitazione, l’altro si fa da parte e – quando va bene – si accoda: non scalpita e non prende l’iniziativa, tanto sa che alla fine ci sarà da rimboccarsi le maniche e riprendere a spalare “problemi”. Queste due tipologie di fratelli e sorelle possono anche essere due fasi della vita spirituale di una stessa persona che all’inizio, magari, sente di lasciare tutto e “seguire” la fede e poi, invece, di rallentare e andare avanti con il proprio ritmo. O, addirittura, il contrario: alcuni possono incontrare il Signore dentro il proprio piccolo quotidiano e poi, lentamente, lasciarsi coinvolgere sempre di più fino a cambiare radicalmente il proprio modo di vedere le cose, senza perdere il controllo di sè e della realtà attorno a sè (si spera). Sono diverse, insomma, le situazioni in cui una persona si viene a trovare e variegato è il panorama delle risorse umane di una comunità come quella della chiesa. Ciò che conta, alla fine, è rimanere con i piedi per terra e non stancarsi di guardare con l’anima e con tutto sè stessi al di là del proprio naso e del proprio ombelico per ancorarsi alla realtà e, soprattutto, per accorgersi dell’altro e – che Dio lo voglia – divenire nei suoi confronti un’àncora di speranza, di fiducia e di amore fraterno. Da qui ad essere impulsivi ed emotivi ne passa di storia sociale, di vita personale (situazioni difficili e situazioni liete e motivanti), di paure lontane e di motivi d’ansia vicine anzi, dentro le case di tutti. Dall’essere àncora per l’altro al centrare la realtà attorno a sè c’è una gran bella differenza. Ma è proprio in questo solco esistenziale che i fenomeni religiosi riguardanti visioni, apparizioni e pronunciamenti oracolari si collocano; è nel valico interstiziale tra un modo di credere in Dio con la “pancia”, emotivamente cioè, e un altro, invece, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutte le forze che ogni manifestazione del sacro trova la propria dimensione.

Madonna di Medjugorje

La fede in Dio si nutre di un modo di essere che la Parola e la vita, il dettato biblico e la storia quotidiana, la vita di Gesù e la vita degli uomini di tutti i giorni mostrano, illuminano e propongono senza riserve, nè vergogna o distrazione: un modo di essere fatto, impastato quasi, se non addirittura compromesso con le cose umane da parte di Dio e un modo di essere accostato e in progressiva adesione da parte della sorella e del fratello. Alimentarsi ad un modo di vivere è molto più che ispirarsi, si capisce; conciliare la quotidianità con la vita “eterna” richiede applicazione, costante ricerca e una vera e propria decisione in grado di coinvolgere dal profondo; tuttavia può accadere che nell’attesa di una svolta ci si stanchi e la fede in Dio abbia bisogno di “segni” per continuare nella direzione di sempre. Perciò, anche un messaggio da parte di persone che hanno un rapporto intimo con Dio, così come una parola di conforto e di vicinanza da parte di quanti hanno incontrato Dio e si sono decise per lui, cambiando il loro modo di vivere e di essere, può giovare eccome, purchè il ritorno alla quotidianità non venga rimandato e il cambiamento del proprio modo di essere e di vivere continui e non si fermi o, peggio, venga abbandonato.

La comunità cuce e mette insieme: dall’isolamento alla comunione

L’idolatria del “segno” e la nostalgia di comunità

La prossimità con i fratelli e le sorelle concede al proprio tempo e al proprio spazio una chance unica che è quella di alzare la testa e guardare oltre, vedere l’altro. I ragazzi scout facevano un gioco durante il campo estivo: avevano scelto un oggetto molto simile ad una gomma da cancellare, chiamato avatar, e lo facevano girare di compagno in compagno durante la giornata scegliendo l’altro in base alla disponibilità che aveva nei confronti del gruppo. Chi riceveva l’avatar aveva la responsabilità di guardare gli altri e di vedere chi si spendeva, chi si metteva in gioco senza cercare un riconoscimento, magari, con semplicità e naturalezza e, senza farsi accorgere, consegnava l’avatar ricevuto a sua volta da un altro. A sera, attorno al fuoco, si faceva il punto della situazione e il percorso dell’avatar illuminava volti e storie che al resto del gruppo potevano rimanere ignoti ed invece costruivano, univano, tessevano trame di fraternità autentica. L’avatar poteva fare diversi giri, nessuno ci faceva caso fino a quando qualcuno non lo consegnava con discrezione alla persona che riteneva di darlo e tutti quei giri erano come passaggi di un filo rosso che univa, cuciva e componeva un mosaico di vite che diversamente sarebbero rimaste accostate come frammenti in attesa di chissà chi o chissà cosa. La ricerca dell’avatar da parte di qualcuno che non si sentiva “visto”, osservato e “premiato” aveva una ricaduta eccezionale sulla sua progressione personale e l’educatore si trovava di fronte ad libro aperto su cui scrivere la più bella poesia d’affetto sincero verso quella persona. Per certi versi, era l’esperienza più delicata e significativa del campo, almeno per quello che riguardava la comunità degli educatori in relazione a tutto il gruppo; perchè quel modo di vivere “cercando” il segno, come una carezza del destino, si apriva ad una possibilità, ad una chance: vedere l’altro senza aspettarsi riconoscenza anzi, preferendo il nascondimento alla visibilità.

Dietro questo aneddoto, vi è una presenza essenziale che fa da sfondo strategico a tutto quanto il gioco dell’avatar. Questa presenza non è quella dei ragazzi nè quella dell’educatore, ma è la presenza della comunità: educatori e ragazzi insieme. La comunità non distingue tra chi ha un ruolo e chi un altro: è insieme di qualsiasi forza interessata; coinvolge, supporta e verifica il cammino dentro un movimento circolare e, a volte, anche frontale, diretto e immediato. In questo senso, l’esperienza dei luoghi santi verso cui ci si muove alla ricerca di “segni” dal cielo è essenziale alla comunità perchè è la comunità che coinvolge, supporta e verifica il cammino di ognuno e di tutti quanti insieme. Un cammino destinato ad andare avanti, senza accelerazioni o rallentamenti fine a sè stessi, ma con il passo del più lento, ovvero di chi fa fatica a cambiare il proprio modo di vivere perchè troppo centrato su di sè o distratto dai propri interessi. 

La fede in Dio si alimenta, dunque, dello spirito chi ha scelto gli altri come modo di vivere e questo modo di vivere, viceversa, ha bisogno di riconoscersi nel modo di vivere di Gesù Cristo, l’esempio concreto consegnato da Dio agli uomini (cattolici e non). Quando Dio ha promesso a Geremia di dare un cuore nuovo e un spirito nuovo al suo popolo (Ger 31,31–33) e, attraverso Gesù, ha fatto capire che bisogna accogliere tutti: non condannare, giudicare per assolvere (al limite), in una parola, perdonare (Lc 6,37) , ha lasciato un messaggio “chiave” su cui il pellegrinaggio nei santuari, tra una visione e l’altra, va verificato e approfondito sia dal singolo fratello e sorella, sia dalla comunità con cui ci si ritrova in quei luoghi: Dio è fedele. La promessa di Dio si fa strada anche mentre i piedi varcano soglie “benedette” mentre il cuore è altrove e non ne vuole sentire ad amare l’altro senza riserve; non indifferente, infatti, è il compito redazionale di quella mano invisibile che continua a scrivere non però «con inchiostro, ma con lo Spirito di Dio, e non su tavole di pietra, ma su tavole che sono cuori di carne» (2Corinzi 3,3): una mano decisa ma non invadente, determinata ma non ingombrante.

«Se non avessi pregato Dio ogni domenica mattina, durante la messa delle 08:00, non avrei potuto perdonare chi ha ucciso mio figlio», mi confidò tantissimi anni fa una persona. Non fu davanti ad un santuario, ma ad una piccola chiesa di provincia; non accadde in pellegrinaggio ma durante una comune domenica mattina. Mi ritrovai indietro, molto indietro, di fronte alle quelle parole dette all’improvviso, con il cuore, e cariche di una fede in Dio molto semplice; ma grazie a quello scambio il mio modo di vivere cambiò molto: mi sentii comunità, Chiesa non in quanto sacerdote ma, al contrario, sacerdote in quanto chiesa, comunità. Quelle parole come un’avatar le ho riconsegnate a tanta gente, ma ogni tanto le ricordo a me stesso e le riascolto per giorni. Non ricordo più nemmeno il volto di quella persona; se dovessi rincontrarla non la riconoscerei. Poco importa. L’amore copre, sopporta, spera tutto (1Cor 13,1ss): un filo rosso che cuce, tesse e ricompone vite strappate alla frammentazione fine a sé stessa e destinate al mosaico, alla comunità peregrinante.

Published by

Lascia un commento