I dischi che una volta si ascoltavano in casa o nelle balere avevano dei solchi, delle scanalature: si chiamavano “groove”; la musica e le canzoni che ascoltiamo hanno una serie di battute ritmiche che ci coinvolgono: più sono lineari e semplici, più la canzone ci piace. Queste serie ritmiche si chiamano “groove”. La rivoluzione musicale dal 1950 in poi, praticamente dal rock and roll di Elvis Presley, ha regalato all’umanità un ventaglio di progetti sonori che ad oggi rappresentano il “rinascimento” della nostra cultura con al centro una sensibilità “groove” per le persone: una sensibilità che scava, incide e rimane, lasciando il segno. Quando si legge un libro o quando si vede un film, così come per un corso di studi o durante un viaggio di lavoro, c’è qualcosa che tiene l’attenzione alta e coinvolge in maniera progressiva a tal punto da affascinare, mentre la lettura è in corso, mentre il corso di studi è iniziato e il viaggio di lavoro è entrato nel vivo. Questo ci viene proprio dal modo di sentire, di percepire e di accorgerci che è “groove”: incisione umile e precisa, anche se lenta.
C’è stato un tempo in cui i princìpi venivano prima del ragionamento, i dogmi prima della fede e del “cammino” spirituale del credente, le regole e le costituzioni prima del senso civico. È stato un tempo importante in cui le persone uscivano di casa con un bagaglio umano fatto di ossequio, rispetto, obbedienza, reverenza e sottomissione tipico delle società feudali e agrarie esistite fino al secondo dopoguerra. Un tempo che ha formato generazioni di politici, filosofi ed economisti, ecclesiastici, imprenditori e artisti, impiegati, insegnanti e ogni sorta di professionista “innamorati” del senso del dovere in quanto tale.
Poi le regole, i dogmi e le costituzioni sono state “discusse”, criticate e dibattute: la società si è scoperta comunità e le famiglie sono diventate coppie di innamorati. Le contestazioni si sono affermate come modelli di dissenso e le occupazioni o gli scioperi forme di civilizzazione dei diritti dei lavoratori. La musica da camera ha fatto più spazio alla musica leggera e gli spartiti hanno ceduto il posto ai testi con gli accordi. Tutto questo per leggerezza, superficialità, opportunismo o strategia commerciale? Sicuramente no. Certo, gli eccessi ci sono stati e anche in Italia abbiamo vissuto gli anni di piombo, del terrorismo e delle stragi di stato. Ma il cambiamento ha risposto soltanto ad un’esigenza delle persone: le relazioni. Relazioni con gli altri (educazione civica), relazione con i contenuti e i processi della conoscenza (contestazioni e dibattiti), relazione con Dio e la Chiesa (dal catechismo alla catechesi).
Qui è nato il “groove”; e non semplicemente come genere musicale, ma addirittura come esperienza di vita ordinaria che diviene stile: una vita che incide, che richiede asilo all’anima e che pretende il nome di “storia” se tocca l’emotività e l’affettività e la persona ne è consapevole. È “groove” stimolare consapevolezza, far aprire gli occhi ed educare all’attenzione “civica” verso l’anima e i suoi bagliori. Perché c’è l’esigenza di un cambiamento di paradigma e la gente sente il bisogno di essere protagonista negli stessi contesti in cui prima partecipava in modo passivo, come a teatro durante una commedia. La grande lezione di Pirandello che “sveglia” tra il pubblico alcuni dei suoi attori è un piccolo, “profetico” riverbero di questa rivoluzione antropologica, cioè delle persone comuni e del loro vivere l’ordinarietà. I giovani con il loro agitarsi attorno a questioni affettive in maniera del tutto “segreta” o il disinteresse nei confronti delle istituzioni religiose o dei grandi temi sociali e politici sono comunque prossimi all’arte: poesia, musica, fotografia e pittura. E questo perché? Per il primato della consapevolezza e della compartecipazione del quotidiano. Primato che matura, evolve e sposta la linea d’orizzonte da un’altra parte, rispetto a quanto le istituzioni pretendono anche a discapito di sé stesse. A nulla serve alimentare il concetto di appartenenza ad un popolo solo per il colore della pelle, l’idioma e l’albero genealogico, magari solleticando vecchie fobie nei confronti dello straniero: l’ethos, l’etica, il bene ha precedenza rispetto all’etnos! E a nulla serve remare al contrario nella barca di Pietro e incoraggiare l’ammutinamento all’ascolto della Parola e della gente magari minando la credibilità di alcuni suoi colonnelli: siamo tutti nella stessa barca, assieme ai colonnelli (forse) ma molto più di loro e di chi ne è garante. “Groove” è sentire la barca sotto i piedi, la strada sotto le scarpe e i passi nel cammino; il selciato si scompone e l’erba accoglie; gli odori si fondono e il profumo di vita non discrimina. “Groove” è origliare per accorgersi del “rumore” della vita ordinaria, è mettere radici già tracciando solchi consapevoli nel proprio piccolo quotidiano, qualunque esso sia.
Così è stato per il maestro di Nazareth e così accade oggi; pop era lo stile di quanti usavano la religione per il proprio tornaconto e “groove”, invece, lo stile di chi ha messo al centro le persone, cominciando da chi non aveva diritto di parola (Parola). Pop era giudicare le persone secondo i propri schemi, sentendosi padreeterni immortali; “groove” è stato collocarsi accanto agli altri chiudendo gli occhi e imparando dal loro “rumore”. Pop è stato uccidere l’altro per salvaguardarsi; “groove” è lasciarsi condannare a morte senza rifiutare la vita di nessuno, nemmeno quella dei propri detrattori, ambasciatori del pop pronti ad ingaggiare il neomelodico per il lunedì di pasquetta.



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