
La paura dell’altro scorre come un fiume rosso tra le acqua di un oceano sempre più freddo: il mondo globale. Forse sono contaminazioni o forse semplici traiettorie di un pensiero che stenta a soccombere; tuttavia, la cancellazione del silenzio e della parola altrui è ormai un passaggio obbligato della routine quotidiana. L’altro, con i suoi attimi più o meno lunghi (a volte eterni) di solitudine è un bersaglio da isolare: un puntino gelidamente condannato a non comunicare. E di questo c’è chi se ne vanta pure. Ci ricordiamo di esistere solo quando avvertiamo l’urgenza di essere amati; ma, fino ad allora, lo spreco di autosufficienza non ci fa vergognare nemmeno più. Cosa vuol dire celebrare un mistero sacro, come quello eucaristico, se quanti lo fanno muoiono nell’incoscienza di sapersi ossa, muscoli e carne di un corpo vivente? E cosa vuol dire, raccontarsi in giro come chiesa se tra chi ne fa parte manca condivisione di vita, comunione d’anima, passione per il silenzio e la parola altrui? E cosa vorrà dire mai esserci fisicamente, esteriormente, orizzontalmente e spesso anche di fronte, se a ciò si esclude (a priori) la presenza interiore, il desiderio e la forza vitale dell’amicizia, quella vera: l’unica possibile tra persone?
Il “Corpus Domini” è un nome e cognome scolpito nella coscienza personale e collettiva; un fragile e dimenticato individuo che, però, è depositario di forza e dignità fino all’ultimo respiro; un’esistenza tutta da scoprire in punta di piedi ma, allo stesso tempo, con determinazione, progettualità magari, però sicuramente con discreta convinzione: quella di volersi e desiderarsi uniti e per una buona causa.
Il disincanto delle nostre comunità è troppo e lo sappiamo: il Concilio Vaticano II ha alimentato attese importanti che, ad oggi, stentano ad essere calendarizzate; e abbiamo pure assistito a ripiegamenti verso il passato (se non verso la preistoria) della religiosità. Il tutto mettendo di lato il Vangelo, il semplice, sobrio e preciso sguardo sulla vita altrui come luogo in cui collocarsi e come corpo del quale sentirsi ossa, muscoli e carne. Occorre – eccome se occorre! – ribattezzare la memoria, pur rimanendo in piedi, e fare strada con ognuno di quelli che percorrono la stessa direzione.
In quel passo in cui il maestro di Nazareth disse: «Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono» (Gv 6,58), è lampante il cambio di prospettiva: dall’ombelico al cielo e dal cielo all’altro. Eppure alzare la testa, da Neanderthal a oggi, rimane una delle conquiste antropologiche più vere di sempre.


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